TRINITAPOLI - Siamo ormai in balia del neo “capitalismo dell’informazione”, definito anche della “sorveglianza”, che sta impossessandosi dei cervelli e non più dei corpi dei lavoratori sfruttati in passato dal capitalismo industriale.
Ora dobbiamo combattere, con la nostra residua libertà, contro le intelligenze artificiali e l’“infocrazia” che sta trasformando i popoli in servi e consumatori di prodotti anche immateriali. La situazione sta diventando veramente seria, e, se non ci muoviamo, in un prossimo futuro saremo liberi solo di servire.
L’impegno di tutti coloro che ne sono ormai consapevoli, ma non rassegnati, è di rendere quanto più possibile difficile questo lento asservimento. In che modo? In generale, bisognerebbe ridurre e far ridurre l’utilizzo dei social ad anziani, giovani e bambini e cercare di moltiplicare le relazioni umane in crisi in ogni contesto, sia sociale che politico. Con molta fermezza, poi, le famiglie dovrebbero privilegiare i contenuti ai contenitori, perché, come ha scritto qualcuno, “la festa nuziale è più importante dell’amore, il funerale più del morto e il corpo più dell’intelletto”.
Il problema più drammatico, invece, che esige una particolare attenzione da parte di adulti e docenti, è oggi rappresentato dal vocabolario di base dei giovani, che conoscono quantità minime di parole insufficienti per capire un testo. La storia dei giovani che sanno sempre meno vocaboli è datata. Della “generazione 20 parole” se ne parla ormai da molti anni, non senza allarmarsi per le conseguenze dell’impoverimento lessicale e dell'uso ridotto delle forme linguistiche più complesse.
Di certo, le parole che i ragazzi della Generazione Z conoscono sono di gran lunga di più di 20, ma quelle che vengono usate a ripetizione durante la giornata tra Facebook, Instagram, TikTok, WhatsApp e X (ex Twitter) forse si riducono a qualche decina. Non credo che ci siano genitori che non abbiano sentito i loro figli dire almeno una volta al giorno parole come “un botto”, “postare”, “spoilerare”, “amò”, “boomer”, “tesò” e “scialla” (che non è il femminile di scialle).
Purtroppo, una ristretta capacità espressiva riduce le possibilità di far valere i propri diritti, di comprendere un testo, ad esempio un contratto o un articolo, ed aumenta la tendenza dell’individuo a uniformarsi all’opinione di maggioranza, quella che oggi è chiamata “pensiero unico” o “mainstream”.
Sono in pericolo il dibattito e il pensiero critico, oltre alla capacità di argomentare le proprie idee. Infine, un vocabolario e una capacità di esprimersi limitati possono accrescere l’aggressività verbale o fisica. Significa che, se non si hanno parole e quindi concetti in testa, spesso si ricorre alla violenza o alla denigrazione verbale.
A Trinitapoli c’è stato un professore, il compianto Antonio Zingrillo, che negli anni ’80 e ’90 mise in pratica gli insegnamenti di don Lorenzo Milani, il quale, nella sua piccola scuola di campagna di Barbiana, incitava ogni giorno i suoi studenti lavoratori a studiare perché “un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”.
Il professor Zingrillo condusse per due anni nelle classi della scuola media “Garibaldi”, dove insegnava, una ricerca sulla conoscenza delle parole degli studenti, che fu pubblicata dal Comune di Trinitapoli nel 1991. Si trattava dell’applicazione del “Glottokit” (titolo dell’opera), promosso dalla cattedra di Filosofia del Linguaggio dell’Università “La Sapienza” di Roma, retta dal prof. Tullio De Mauro, di cui Antonio Zingrillo fu appassionato discepolo nel corso di tutta la sua vita di studioso.
Si dovrebbe riproporre oggi una simile esperienza didattica che, 35 anni fa, riuscì a fare una diagnosi dei livelli di partenza dei ragazzi, una lista degli errori più comuni influenzati dal dialetto e soprattutto registrò periodicamente i progressi ottenuti grazie alla lettura quotidiana di libri e giornali dagli studenti della classe II^D e poi III^D degli anni scolastici 1988/89 e 1989/90.
ANTONIETTA D’INTRONO