LA PAROLA AGLI EX - Per Ruggero Maglio il PCI insegnò la solidarietà per i più deboli

TRINITAPOLI - Ruggero Maglio è nato a Trinitapoli nel 1932. Il padre, contadino, riuscì con enormi sacrifici a mantenere decorosamente una famiglia di 7 figli durante gli anni difficili della guerra e a dare ad ognuno di loro un mestiere, educandoli a lottare ogni giorno per difendere i propri diritti e quelli di tutti i lavoratori. Ruggiero Maglio ha trasportato con il camion merce in tutta l’Italia e, una volta in pensione, ha continuato a lavorare instancabilmente in campagna. Si iscrisse al Partito Comunista Italiano nel dopoguerra. Per anni ha fatto parte dei direttivi della sezione trinitapolese ed è stato consigliere comunale del P.C.I. durante le amministrazioni dirette dal sindaco democristiano Nunzio Sarcina (1962/1972) e nella prima legislatura del sindaco comunista Arcangelo Sannicandro (1973/1976).

Appartieni alla generazione di coloro che in casa tenevano affissi alle pareti le foto dei santi protettori accanto a quelle di Marx e Lenin. Che cosa è stato per te il Partito Comunista Italiano?

«È stata la mia seconda casa. I dirigenti provinciali e locali, come il grande Vito Leonardo Del Negro, erano in attività permanente 24 ore su 24, pronti ad organizzare incontri ed assemblee per spiegare leggi e delibere, per leggere il quotidiano l’Unità (che distribuivamo la domenica) e per insegnare a leggere e scrivere ai compagni analfabeti, perché bisognava studiare e sapere tutti i fatti per non farci imbrogliare dai padroni e da chi “aveva fatto le scuole grosse”. La sezione, per noi, è stata l’università che non abbiamo mai frequentato. Chiedi oggi ad un giovane universitario che cosa sono una Delibera, un’Ordinanza oppure un Decreto legge e vedi che cosa ti risponde.

Ogni iscritto al P.C.I. era obbligato a rispettare lo statuto e cioè “a partecipare regolarmente alle riunioni del partito, a migliorare di continuo la conoscenza della linea politica del partito, ad osservare scrupolosamente la disciplina del partito, ad avere rapporti di lealtà e fraternità con gli altri membri del partito, ad avere una vita privata onesta ed esemplare e a fare con la parola e con l’esempio opera di proselitismo”. Non ci sentivamo mai soli perché ogni problema personale diventava il problema di tutti. Oggi quello che succede nel “giardino del vicino” non interessa più a nessuno. La chiamavamo “solidarietà”. Esiste ancora questa parola?».

Che cosa significava concretamente per te “interessarti di politica”?

«In un periodo in cui non c’era la televisione che ci stonava con le urla dei politici e con le canzonette, noi frequentavamo la sera, dopo il lavoro, la sezione non solo per scambiarci quattro chiacchiere o per farci la partitella a carte, ma per capire che cosa stava succedendo nel mondo, in Italia, nel paese e di conseguenza a casa mia. Questo era, e penso sia, la politica: capire e cercare di cambiare insieme le cose nel caso qualcuno voglia mettere i più deboli sotto i piedi. Ogni sera scrivevamo qualcosa sulla lavagna esterna della sezione per comunicare con tutti i cittadini e ci dedicavamo al tesseramento che durava praticamente un anno intero. Gli iscritti, quasi tutti braccianti, si impegnavano a pagare la tessera, divisa in quote mensili, affrontando spesso le discriminazioni da parte del padronato. Le tessere venivano consegnate direttamente a casa degli iscritti per conoscere meglio le problematiche di ognuno. In molte occasioni si riunivano le cellule di quartiere e si organizzavano manifestazioni di piazza per l’imponibile di manodopera, per la parità salariale uomo/donna, per scuola e sanità pubbliche e per tanti altri diritti che oggi i giovani pensano siano scesi dal cielo. Ogni piccolo passo avanti che faceva la classe operaia è stato conquistato con le unghie e con i denti, ricordatevelo!».

Sei stato per molti anni consigliere comunale di minoranza ed anche di maggioranza. Quali sono gli eventi o le scelte amministrative che ricordi con maggior piacere?

«C’era molto rispetto, innanzitutto, tra maggioranza ed opposizione. Non ricordo di aver mai scambiato insulti con nessuno dei democristiani e neanche con i missini. Eravamo tutti “zizì”! Gli anni ’60 furono gli anni dell’acqua, della fogna e delle strade cittadine. La gente andava ancora alla fontana a riempire l’acqua e noi cercavamo dai banchi dell’opposizione di far alleggerire il peso che le donne sostenevano in case senza acqua e fogna. Quando negli anni ’70 arrivò la nostra amministrazione, diretta dal compagno Arcangelo Sannicandro, cercammo di portare in paese i servizi e le istituzioni che avevano reso l’Emilia e Romagna “rossa” un modello di civiltà apprezzato anche all’estero. Una delle prime scuole materne comunali a tempo pieno fu istituita nel 1973 a Trinitapoli nella scuola elementare di Rione San Pietro e divenne un punto di riferimento importante per tutta la provincia. In un paese in cui i bambini in età prescolare frequentavano l’asilo delle monache, diretto da suor Caterina (l’unico esistente in paese a pagamento) apparve rivoluzionario mandare i bambini, gratuitamente, per 8 ore al giorno in un luogo dove potevano giocare senza il pericolo della strada, potevano pranzare, fare merenda e dedicarsi a tante altre attività mentre le mamme lavoravano negli uffici, nelle scuole, nei magazzini o in campagna».

Hai conservato intatto il tuo buon umore, nonostante i problemi e le disavventure che hai attraversato nella vita. Ruggero, che cosa hai intenzione di fare “da grande”?

«Eh, ancora tante cose! Almeno la volontà c’è, è la forza che è diminuita. Per il momento abbiamo scansato il Covid e posso dare un’occhiata alla mia campagna, posso andare sulla villa a farmi una camminata e a parlare con gli amici, posso “corteggiare” mia moglie e dirle che è sempre molto bella, posso seguire i miei nipoti, quelli grandi e quelli piccoli, che sono il mio orgoglio. Se ci fosse il P.C.I. forse farei ancora politica. Ma finché c’è vita c’è SPERANZA».

ANTONIETTA D’INTRONO